Analfabeti d'Italia

Temat przeniesiony do archwium.
Analfabeti d'Italia

Solo il 20 per cento degli adulti italiani sa veramente leggere, scrivere e contare

Internazionale 734, 6 marzo 2008

Cinque italiani su cento tra i 14 e i 65 anni non sanno distinguere una lettera da un'altra, una cifra dall'altra. Trentotto lo sanno fare, ma riescono solo a leggere con difficoltà una scritta e a decifrare qualche cifra. Trentatré superano questa condizione ma qui si fermano: un testo scritto che riguardi fatti collettivi, di rilievo anche nella vita quotidiana, è oltre la portata delle loro capacità di lettura e scrittura, un grafico con qualche percentuale è un'icona incomprensibile.

Secondo specialisti internazionali, soltanto il 20 per cento della popolazione adulta italiana possiede gli strumenti minimi indispensabili di lettura, scrittura e calcolo necessari per orientarsi in una società contemporanea.

Questi dati risultano da due diverse indagini comparative svolte nel 1999-2000 e nel 2[tel]in diversi paesi. Ad accurati campioni di popolazione in età lavorativa è stato chiesto di rispondere a questionari: uno, elementarissimo, di accesso, e cinque di difficoltà crescente. Si sono così potute osservare le effettive capacità di lettura, comprensione e calcolo degli intervistati, e nella seconda indagine anche le capacità di problem solving.

I risultati sono interessanti per molti aspetti. Sacche di popolazione a rischio di analfabetismo (persone ferme ai questionari uno e due) si trovano anche in società progredite. Ma non nelle dimensioni italiane (circa l'80 per cento in entrambe le prove).

Tra i paesi partecipanti all'indagine l'Italia batte quasi tutti. Solo lo stato del Nuevo Léon, in Messico, ha risultati peggiori. I dati sono stati resi pubblici in Italia nel 2001 e nel 2006. Ma senza reazioni apprezzabili da parte dei mezzi di informazione e dei leader politici.

Nelle ultime settimane, però, alcuni mezzi di informazione hanno parlato con curiosità del fatto che parecchi laureati italiani uniscono la laurea a un sostanziale, letterale analfabetismo. Questa curiosità vagamente moralistica è meglio di niente?

No, non è meglio, se porta a distrarre l'attenzione dalla ben più estesa e massiccia presenza di persone incapaci di leggere, scrivere e far di conto (quello che in inglese chiamiamo illiteracy e innumeracy e in italiano diciamo, complessivamente, analfabetismo). È notevole che l'analfabetismo numerico (l'incapacità di cavarsela con una percentuale o con un grafico) non abbia neanche un nome usuale nella nostra lingua.

È grave non saper leggere, scrivere e far di conto? Per alcuni millenni – dopo che erano nati e si erano diffusi sistemi di scrittura e cifrazione – leggere, scrivere e far di conto furono un bene di cui si avvantaggiava l'intera vita sociale: era importante che alcuni lo sapessero fare per garantire proprietà, conoscenze, pratiche religiose, memorie di rilievo collettivo, amministrazione della giustizia.

Ma nelle società aristocratiche a base agricola, purché ci fossero alcuni letterati, la maggioranza poteva fare tranquillamente a meno di queste capacità. I saperi essenziali venivano trasmessi oralmente e perfino senza parole. Anche i potenti potevano infischiarsene, purché disponessero di scribi depositari di quelle arti.

Carlo V poteva reggere un immenso impero, ma aveva difficoltà perfino a fare la firma autografa. Le cose sono cambiate in tempi relativamente recenti almeno in alcune aree del mondo. Dal cinquecento in parte d'Europa la spinta della riforma protestante, con l'affermarsi del diritto-dovere di leggere direttamente Bibbia e Vangelo senza mediazioni del clero, si è combinata con una necessità creata dal progredire di industrializzazione e urbanizzazione: quella del possesso diffuso di un sapere almeno minimo.

In seguito è sopravvenuta l'idea che tutti i maschi abbienti, poi tutti i maschi in genere, infine perfino le donne, potessero avere parte nelle decisioni politiche.

La "democrazia dei moderni" e i movimenti socialisti hanno fatto apparire indispensabile che tutti imparassero a leggere, scrivere e far di conto. Il solo saper parlare non bastava più. E in quelle che dagli anni settanta del novecento chiamiamo pomposamente "società postmoderne" o "della conoscenza", leggere, scrivere e far di conto servono sempre, ma per acquisire livelli ben più alti di conoscenza necessari oggi all'inclusione, anzi a sopravvivere in autonomia.

L'analfabetismo italiano ha radici profonde. Ancora negli anni cinquanta il paese viveva soprattutto di agricoltura e poteva permettersi di avere il 59,2 per cento della popolazione senza titolo di studio e per metà totalmente analfabeta (come oggi il 5 per cento).

Fuga dai campi, bassi costi della manodopera, ingegnosità (gli "spiriti vitali" evocati dal presidente Napolitano) lo hanno fatto transitare nello spazio di una generazione attraverso una fase industriale fino alla fase postindustriale. Nonostante gli avvertimenti di alcuni (da Umberto Zanotti Bianco o Giuseppe Di Vittorio a Paolo Sylos Labini), l'invito a investire nelle conoscenze non è stato raccolto né dai partiti politici né dalla mitica "gente".

Secondo alcuni economisti il ristagno produttivo italiano, che dura dagli anni novanta, è frutto dei bassi livelli di competenza. Ma nessuno li ascolta; e nessuno ascolta neanche quelli che vedono la povertà nazionale di conoscenze come un fatto negativo anzitutto per il funzionamento delle scuole e per la vita sociale e democratica.

***

Diversi lettori e lettrici hanno chiesto quali sono le fonti di questo articolo. Sono due successive indagini internazionali i cui risultati sono stati pubblicati a cura di Vittoria Gallina, ricercatrice del Cede, poi Invalsi, in due volumi, il primo con prefazione di Benedetto Vertecchi: La competenza alfabetica in Italia. Una ricerca sulla cultura della popolazione (Franco Angeli 2000); Letteratismo e abilità per la vita. Indagine nazionale sulla popolazione italiana 16-65 anni (Armando editore 2006).

Sulle conseguenze anche economico-produttive del basso livello di alfabetizzazione si vede utilmente Attilio Stajano, Research, Quality, Competitiveness. European Union Technology Policy for Information Society (Springer 2006), di cui è in stampa una seconda edizione aggiornata.–Tullio De Mauro
ma mi sbaglio o qui si parla solo in italiano?
Chiaramente l'articolo si può anche capovolgere: nell'Italia di oggi essere semianalfabeti è un pregio. Se guardiamo ai meccanismi di selezione delle classi dirigenti vediamo che c'è stato un degrado progressivo delle competenze ai massimi livelli. Di recente un senatore non ha trovato di meglio di uno sputo per esprimere il suo disappunto ad un collega.

In questi giorni i giornali sono pieni delle battute comiche di un ex-presidente del consiglio, il quale non trova di meglio da consigliare ad una disoccupata che sposare un riccone.

In tutti gli ambienti professionali si vedono gli incompetenti che fanno carriera ed i competenti che vengono emarginati e/o puniti. Si potrebbe fare un cenno a due giudici che sono stati puniti per avere fatto seriamente il proprio dovere, mentre molti colleghi incompetenti proseguono senza problemi.

Ciò che non funziona non sono gli italiani, i quali si limitano ad adeguarsi allo stato delle cose, ma i meccanismi di selezione, che premiano i peggiori. Non si spiega altrimenti l'alta percentuale di delinquenti in parlamento.

A tutto ciò si aggiunge il fatto che la scuola una volta era un meccanismo di controllo sociale, che formava buoni cittadini inculcando i saperi voluti dalle classi dominanti. Oggi si è visto che è meno costoso esercitare il controllo sociale tramite i mass-media e lasciar perdere i condizionamenti culturali.
Se non altro gli studenti di oggi non sono più rimbambiti dal libro Cuore e dalla storia provvedenziale che raccontarono a noi, a partire dagli antichi romani che portavano la civiltà, per arrivare alla sospirata unità nazionale realizzata dai Savoia e da Cavour.
Nell'articolo, il prof. De Mauro sottolinea che le competenze mancanti si riferiscono agli strumenti "necessari per orientarsi in una società contemporanea". In questa chiave, mi sembra, debba essere valutato l'articolo. D'altro canto, gli insegnanti italiani sono stati messi al corrente di questi dati (ed altri simili) durante il corrente anno scolastico. Soprattutto, la rilevazione europea che mette la nostra scuola fra le ultime in Europa e la mancanza di formazione "in itinere" per chi ha già completato gli studi. In fin dei conti, il problema nasce dal "basso stato" nel quale è giunta la nostra scuola, conseguente alle liti da "polli di Renzo" della classe politica. Dal tentativo di riforma Berlinguer (partorito con la "Bassanini" nel 1997) ad oggi - De Mauro, Moratti e poi Fioroni - nulla è stato fatto e la scuola italiana vive alla giornata, in mezzo al guado di una riforma Gentile intaccata da interventi "aziendalisti", per giungere ad una scuola dell'autonomia rimasta monca, dopo il "sogno" di una riforma Moratti che non stava in piedi. Tutto ciò, non permette d'affrontare le nuove sfide: problem solving, epistemologia dei saperi sperimentali, alfabetizzazione informatica, formazione in itinere, ecc. Chiacchiere e basta: purtroppo, si tira avanti da un anno all'altro come si riesce. Carlo Bertani
A mio parere la questione si pone in una volontà precisa del sistema a mantenere la gente ignorante. La chiesa ha bisogno di gente fedele, la poltica di cittadini obbedienti. Meno fiducia hanno in se stessi e meglio si omologano. Il senso critico nasce dalla conoscenza non solo e sempre della stessa cosa ma di tante cose e soprattutto dalla capacità di confronto con gli altri ed avere l'umiltà " intellettuale " di dubitare della validità delle proprie idee. Nella mia esperienza personale e professionale mi è capitato spesso di dover rinunciare a migliorare situazioni d cattiva organizzazione aziendale, trovando una forte ostilità da parte del titolare/i Mi sono chiesto quale poteva essere la ragione di tale contrarietà ed ho scoperto che tale atteggiamento nasceva da una mancanza di cultura di base che a sua volta generava diffidenza, sfiducia e invidia.
Un recente articolo di Tullio De Mauro sull'Internazionale riporta che, secondo valutazioni di esperti internazionali "soltanto il 20 per cento della popolazione adulta italiana possiede gli strumenti minimi indispensabili di lettura, scrittura e calcolo necessari per orientarsi in una società contemporanea".
La parola "soltanto", par di capire, suggerirebbe che il 20 per cento sia troppo poco, e che questa cifra segnali una debolezza o una vulnerabilità dell'Italia. Per la gioia di tutti gli appassionati del tormentone "Povera Italia".

Io, invece, appena mi sono imbattuto in quel dato, mi sono ricordato del recente sondaggio secondo cui un esorbitante numero di studenti inglesi sono sicuri che Sherlock Holmes è veramente esistito, mentre Winston Churcill, Gandhi, e Charles Dickens vanno relegati nel mondo della fantasia.
Intendiamoci, io non respingo del tutto l'opinione che il nostro paese sia il ventre molle dell'Europa, e credo che gli americanofili di casa nostra possono essere giustamente orgogliosi di quanto il nostro paese assomigli sempre di più agli Stati Uniti per ciò che questi hanno di peggio, a partire dalla sconcertante ignoranza della propria popolazione.
Ma l'eroe delle saghe celtiche Winston Churchill sta lì a ricordarmi che se guardassimo alle tendenze di fondo le società occidentali si assomigliano tra loro molto di più di quanto si differenzino.

E' tanto o è poco un 20 per cento di popolazione istruita in una società tecnologica? Non saprei. Forse è poco e periodicamente occorre fare degli investimenti supplementari nell'istruzione per adeguare l'offerta e la domanda di lavoro intellettuale. Ma è anche vero che non esisterebbe società tecnologica se non esistesse, previamente, una certa capacità di produzione e riproduzione del know how. In qualche modo gli Italiani riescono a mandare avanti l'"Impresa Italia". Altra questione, naturalmente, è se la scuola italiana, o in generale il sistema culturale del nostro paese, è adeguato alla formazione di cittadini adeguatamente attrezzati a farsi carico delle responsabilità che una democrazia pone loro sulle spalle. Ma qui rischiamo di essere vittime di un equivoco.

Non li vogliamo! Non li vogliamo i cittadini! I cittadini sono dei gran rompiscatole, ed educarli è una gran faticaccia. Chi ce lo fa fare? Immaginiamo che sforzi titanici dovremmo fare per creare delle scuole che formino veramente dei cittadini. Il primo passo da compiere sarebbe una riforma del corpo docente per tenere dentro i veri educatori e buttare fuori tutti gli altri (infatti, se l'obiettivo è creare dei cittadini, come possono degli insegnanti dare quello che non hanno?). Vi pare fattibile?
E poi per che cosa? Perché un corpo di burocrati e di politicanti di quart'ordine, con tutte le grane che ciò comporta, dovrebbero formare dei cittadini che, come primo atto civile della loro vita adulta, inizierebbero a contestare il sistema corrotto che li ha preceduti e che pretende ora di cooptarli in base alla loro disponiblità a vendersi? Francamente è una pretesa contronatura.

Invece dei cittadini non è preferibile avere dei passivi ed obbedienti consumatori di merci? Non sporcano, non fanno rumore, non berciano slogan quando sono in fila alla cassa, e i privati investono volentieri cifre colossali in campagne di marketing e di pubblicità per la loro formazione e il loro aggiornamento.
E' una sinergia eccellente: la scuola fornisce le competenze elementari del leggere, scrivere e fare di conto, e i privati sovvenzionano la "trasmissione dei valori" che serve a dare senso all'esistenza e una guida nelle scelte della vita.
Vedrete che così, in un modo o nell'altro, la società riuscirà ad andare avanti, e il 20 per cento di persone istruite non sembreranno più troppo poche.

Naturalmente sto decrivendo una società ideale, e bisognerà lavorare parecchio per arrivarci.
Frammenti nomadi
Analfabeti d’Italia. Democrazia, populismo, New Media ed elezioni.

“Cinque italiani su cento tra i 14 e i 65 anni non sanno distinguere una lettera da un’altra, una cifra dall’altra. Trentotto lo sanno fare, ma riescono solo a leggere con difficoltà una scritta e a decifrare qualche cifra. Trentatré superano questa condizione ma qui si fermano: un testo scritto che riguardi fatti collettivi, di rilievo anche nella vita quotidiana, è oltre la portata della loro capacità di lettura e di scrittura, un grafico con qualche percentuale è un’icona incomprensibile. Secondo specialisti internazionali, soltanto il 20 per cento della popolazione adulta italiana possiede gli strumenti minimi indispensabili di lettura, scrittura e calcolo necessari per orientarsi in una società contemporanea…”

“Analfabeti d’Italia” Tullio De Mauro in Internazionale n. 734 del 7/3/2008

E’ l’inizio di uno sconvolgente articolo pubblicato oggi sull’ Internazionale (compratelo soldi spesi bene sempre. P.S.non mi pagano) da Tullio De Mauro, noto e battagliero linguista Italiano.

Ci informa che i dati, presi da due ricerche internazionali, vedono l’Italia fanalino di coda; solo uno stato del Messico, Nuevo Leon, è peggio messo.


Chi studia economia, oggi, avrà sentito ripetersi milioni di volte, parlando di monopoli, che questi nascono principalmente quando esistono barriere all’entrata molto alte per chi volesse investire in quel settore. Cioè, ad esempio, pochi canali televisivi su cui trasmettere già occupati che impediscono ad altri concorrenti di entrare; o le necessità per entrare in quel settore di un’autorizzazione difficile da avere o di capitali ingenti.

A questo punto, ogni volta, si aggiunge: ma oggi le barriere più efficaci per conquistare e mantenere posizioni di vantaggio sul mercato sono le capacità e le conoscenze distintive (cioè uniche) che un’azienda possiede.

Seguendo questa logica l’Italia non potrà di certo essere il soggetto vincente della competizione globale. (infatti De Mauro scrive “Secondo alcuni economisti il ristagno produttivo Italiano, che dura dagli anni novanta, è frutto dei bassi livelli di competenza”)


A questo punto, si potrebbe pensare che l’articolo sia opera di un mitomane o dell’unico nel paese ad essere a conoscenza di questi dati.

La situazione è invece più che nota a studiosi, politici e gente normalissima (ad esempio chiunque fa un corso di linguistica dovrebbe averli letti, questi o simili. E diverse volte ho letto articoli sull’argomento.)

In campagna elettorale tutti parlano di rilanciare l’economia e, quasi per dovere di forma, aggiungono alla fine un qualcosa che suona:


“naturalmente dobbiamo poi risollevare la scuola Italiana dall’incubo in cui è precipitata, perché nella società della conoscenza non c’è crescita senza istruzione”

(citazione fiction).

La scuola e l’università Italiana sono da decenni sottoposti a continue rivoluzioni inconcludenti, perché non programmate, imposte dall’alto, miopi e più di tutto perché non finanziate.

La realtà e di totale abbandono dello Stato, di spirito d’iniziativa e sacrifico di tanti e di baronie a più non posso. La qualità dell’istruzione è scarsa, prima ancora che per chi sa quale ragione organizzativo-culturale, per mancanza di danari. In più sconta gravi arretratezze organizzative e culturali, che l’iniziativa, se pur meritevole, di tanti insegnanti, professori e qualche rettore non può di certo riuscire da sola a compensare, anche per le resistenze di una buona fetta del corpo docente che o per interesse di baronia o per comodità di non fare è decisa a continuare imperterrita.

Su tutto questo si abbattono le riforme improvvise e quasi non discusse che tendono ad esasperare un clima già di certo non dei migliori. In ogni modo, per ragioni di convenienza elettorale ed economica, si ostacola la formazione di una generazione di docenti e ricercatori universitari, cinghia di trasmissione e di accrescimento delle conoscenze di un paese, suo principale capitale.(e questo con docenti universitari più anziani d’Europa e con il rischio che tra blocco delle assunzioni, precarizzazione dei contratti e invecchiamento del corpo docente, che per più della metà è vicino alla pensione, presto ci troveremo con una scarsità di Professori e tanti giovani che aspirano alla professione e sono costretti ad emigrare, verso l’Europa o l’America.)

In più, ora, con l’Autonomia degli Atenei, che ha avuto anche effetti molto benefici, le sedi si sono moltiplicate a dismisura. Per avere più fondi spesso si è ingaggiata una vera lotta a colpi di spot e di facilitazioni per gli studenti (compreso abbassamento degli standard formativi) che ha causato in alcuni casi il grave deperimento dell’istruzione offerta e un diluirsi di finanziamenti, già scarsi, tra molti pretendenti, peggiorando la situazione dei poli storici e di eccellenza.

Un altro tema caro ai politici, almeno alcuni, e ai commentatori politici, è il populismo della società moderna.

Molte ricerche (basta citare la storica e un po’ datata “la personalità Autoritaria” di Adorno) hanno dimostrato che la predisposizione all’obbedienza al capo, la tendenza populista attecchisce di più dove l’istruzione scarseggia. Oggi, si può sottolineare che l’istruzione fornisce una qualche barriera a tali fenomeni se non si tratta di un’istruzione meccanica e nozionistica, ma di un processo in cui si insegna ad apprendere e si trasmettono capacità di lettura e critica del mondo.

L’istruzione è la cinghia che permette ad un popolo di trasmettere e accrescere le sue conoscenze e valori in un contesto di rielaborazione critica e innovazione.

Senza la società resta ferma e immobile in un limbo d’incultura e gli individui non sono messi in grado di affrontare al meglio la società post-moderna; dove diviene,tra le altre cose, dirimente del successo di una persona la sua capacità di scegliere e distinguere velocemente i frammenti di stimolo e di segni per potersi orientare in una società con un eccesso d’informazione, in maggioranza vuota ed inutile, al fine di trovare quella che gli è utile.

Tantomeno sarà in grado di esercitare pienamente i suoi diritti di cittadino.

Tutta la teoria democratico egalitaria si basa su un presupposto implicito del tutto errato, “Il cittadino informato”; cioè che è in grado di capire ciò che succede e di compiere una scelta.

A sentire De Mauro ad oggi il 20 per cento dei cittadini Italiani è in grado di farlo pienamente. (con ciò non intendo che senza saper tutto non si può fare una scelta sensata, ma almeno resta più rischiosa; ne che istruito significhi avere una carta, tanti laureati non sono “cittadini informati” o capaci di un’analisi critica e di autodidatti noti ce ne sono un mare)

Questo ha un impatto distruttivo su l’essere uguali, così fortemente espresso nelle costituzioni democratiche e sulla stessa natura della democrazia, che diventa plebiscitaria.

L’effetto dei media di personalizzazione del discorso politico, la naturale tendenza dal secondo dopoguerra, in occidente, al rafforzamento dei poteri del premier per rispondere ai maggiori compiti dello Stato, dovuti al Welfare, e alla crescente complessità delle sfide globali; e la mancanza di cultura critica ed informazione libera e utile hanno spinto ad una deriva populista.


E’ andata peggio nei paesi come l’Italia, dove non si è risposto in tempo alla necessità di un rafforzamento equo e necessario dei poteri del primo ministro, e l’ingovernabilità ha favorito fenomeni di rottura populistico-carismatica degli schemi politici.

Alcuni studiosi, che non so se considerare realisti o elitisti, sostengono che, perché una democrazia funzioni, basta una percentuale di cittadini più attivi ed informati che “sorveglino” chi governa. Primo avrebbero comunque bisogno di informazione aperta, libera e completa. Secondo dovrebbero riuscire poi ad influenzare la restante popolazione per influire sulle scelte. Terzo come la storia insegna, userebbero il loro potere di influenza a proprio vantaggio. Quarto l’uguaglianza e la libertà di scelta?

Probabilmente una certa differenza è normale, ma non mi sembra un obbiettivo impossibile arrivare al punto che tutti, desiderandolo (visto che un altro errore classico è pensare che tutti per forza avendone le capacità vorrebbero partecipare alla vita pubblica), possano avere le basi culturali e informative per partecipare, pienamente, alla vita politica.


Altro tema caro alla politica, in periodo di elezioni, è la meritocrazia.


“che tutti abbiano stesse possibilità di partenza e che poi il merito selezioni gli invincibili eroi” (citazione fiction)


Di per se i lupi che sono animali da branco conoscono l’altruismo della sopravvivenza. Oggi, o in questo, io aiuto te; domani, o in quell’altro, tu aiuti me. Credo che, anche attenendoci a questa regola naturale, un simile pensiero sia eccessivo. Se poi si considera che, in tutto il mondo e ancor più in Italia, raramente il talento da solo è sufficiente… (tanto che si fa mito del self made man, che se fosse così comune non sarebbe mito)

E da questo resta fuori l’evidente vuotezza di promesse elettorali che sono state smentite per decenni interi dai fatti concreti e che, a ben guardare, anche nelle promesse non offrono quello che sarebbe davvero necessario per inserire, in una società ancora connotata dal familismo amorale, un giusto e funzionale criterio di meritocrazia.

La situazione reale è, che a fronte di tali dati ben noti e dei gravissimi rischi che questi comportano per l’economia, la società, la qualità della vita e il patto politico-democratico su cui si basa la convivenza moderna; si continua a sottovalutare il problema e a farne materia di consenso elettorale e che né politici, né cittadini sono disposti a combattere questa battaglia fondamentale per il futuro.


Siamo una società in declino perché convenienze dell’oligarchia e apatia sociale distruggono le poche capacità critiche e formative ancora in piedi. La moltiplicazione di laureati (bassissima rispetto ai competitor europei, ma cmq in crescita) non è una garanzia di qualità e resta un fenomeno aperto a determinati ceti o classi sociali (o almeno a cui si accede molto più facilmente da alcune posizioni sociali di partenza); e peggio ancora l’assoluta mancanza di meritocrazia è il vero strumento di mantenimento dell’oligarchia e di inserimento nella società bene dei pochi meritevoli che servono e che accettano le regole implicite del gioco.



Tale fenomeni, lungi dall’essere intaccati dai nuovi media, ne vengono in realtà accresciuti.



La rete che per sua natura è collaborativa, democratica e orizzontale è investita dai fenomeni sociali ed economici del mondo reale che ne forzano le regole. Sempre più la rete, sotto la spinta di forti interessi economici, si configura come canale alternativo dell’industria culturale per fornire contenuti di massa non interattivi o scarsamente interattivi. I siti dei maggiori network sono i veri vincitori della competizione sul Web.

A questo si aggiunge il Digital Divide, che ha due aspetti, anche se di solito si tende a considerarne uno.

Quello più noto è che nella realtà non tutti hanno la possibilità di accedere ai New Media.

L’altro è che non basta avere la possibilità fisica di accedere alla rete, ma per una navigazione consapevole, che sia strumento di crescita e di partecipazione, bisogna averne le capacità culturali e critiche, il tempo e spesso anche le capacità economiche.

La rete, ad oggi, si sta rivelando strumento di partecipazione ulteriore, e di ulteriore influenza, per chi già aveva possibilità di partecipare ed influire. L’istruzione, oggi più che mai, dovrebbe formare persone in grado di orientarsi nel caotico flusso di informazione; e di leggere le informazioni in modo critico; per poi prendere parola, che per molti è la vera possibilità liberatoria di Internet. Si può aggiungere che prendere parola non è sufficiente di per se ad esercitare influenza se non c’è nessuno ad ascoltare. Tanto che alcuni studiosi si spingono a definire la nostra economia come Economia dell’attenzione. Sostengono che il bene più prezioso e scarso è l’attenzione del cliente/spettatore e che sul mercato globale vince chi riesce a conquistarlo. (economia dei contatti)


Gli effetti sociali delle tecnologie e in particolare dei media dipendono in parte dalle logiche intrinseche del mezzo, ma in larga parte risultano dall’uso sociale che se ne fa. Da come l’uomo le inserisce nel mondo e le usa.

Dietro le possibilità liberatorie della rete un mostro si affaccia. Il mostro sono gli squilibri sociali e di potere, che si stanno riproducendo in rete, e l’analfabetismo ancora diffuso, inteso sia in senso classico e ancor più in senso di alfabetizzazione digitale e di formazione di capacità critiche.

(tanto più che la partecipazione virtuale spesso diventa un palliativo che impedisce la partecipazione nel mondo fisico)

Dietro l’incoerenza politica sulla scuola e la mancanza d’intervento reale, sensato ed urgente; dietro le promesse non chiare e troppe volte già vuote qualcuno potrebbe vedere un deliberato progetto per tenere le persone ignoranti così da poterle meglio controllare.
Temat przeniesiony do archwium.

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